Per gentile concessione della casa editrice Rizzoli pubblichiamo il capitolo “Lo sposo aspettava la sua sposa” del libro “Il paradiso esiste… Ma quanta fatica” (pagg. 264, euro 19), scritto da con Giancarlo Dotto e da oggi nelle librerie. Cominciai ad amare i giocatori del Napoli prima ancora che diventassero miei. È il mio modo: lasciarmi pervadere dalle cose, dalle persone, entrarci dentro, dentro chi si troverà a spartire con me una storia importante. Come fosse un morbo.
Lo dissi a Insigne e compagni, il giorno in cui fui finalmente davanti a loro: «Da quando ho saputo che vi avrei allenato, da quel momento non vi ho più levato gli occhi di dosso…
Di te, Insigne, per esempio, mi piacciono le catenine che hai al collo e le scarpe che indossi». Davo questi dettagli per fargli capire quanto mi erano già entrati dentro. Sono fatto così. Sapevo quasi tutto di loro prima ancora di parlarci. Abitudini, risorse e debolezze. Tentai di sintonizzarmi con loro sin dal primo giorno.
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Trovai una piazza depressa. Anzi, il nemico maggiore era l’indifferenza. L’addio di Gattuso aveva lasciato un vuoto nel gruppo, la qualificazione in Champions sfumata malamente all’ultima giornata era stata un colpo duro da digerire.
Il Napoli che era uscito dalla partita con il Verona quando aveva pareggiato contro una squadra che non aveva più niente da chiedere al campionato facendosi sorpassare da Juventus e Milan era un cumulo di macerie.
C’era da rimboccarsi le maniche, da prendere la vanga, il piccone, e cominciare a scavare per recuperare, sotto la tristezza, la gioia di giocare a calcio. Lavorare a testa bassa per ritrovarsi un giorno in campo a testa alta.
La convinzione che fosse una squadra forte la ebbi fin dall’inizio, ma dovevano sentirsi forti loro, i giocatori. Stimavo la rosa e stimavo il lavoro di chi mi aveva preceduto, quello di Sarri in particolare mi avrebbe aiutato. Un tecnico estremo, ma molto bravo, uno dei migliori a organizzare un calcio di qualità.
«Se andrete in giro per il mondo, dovrete aver scritto sul passaporto che siete stati i primi a vincere a Napoli dopo Maradona. Avremo tutti il nostro murales» così dicevo ai miei giocatori per pungolare la loro fantasia e il loro amor proprio.
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Trovai subito conferme. Già a partire dai primi allenamenti. C’erano giocatori di personalità. Koulibaly e Di Lorenzo su tutti. Ospina per la sua esperienza internazionale, Anguissa per la sua forza. Osimhen, con il quale a volte avrei preso a fermarmi dopo l’allenamento con la squadra per esercitare la sua confidenza con la porta. Gli piaceva riconoscere la sua furia e il suo impeto con la palla al piede.
E Insigne, naturalmente. Il capitano era convinto di essere un leader determinante, e questo lo aiutava a esserlo davvero. Quel Napoli sembrava una squadra disegnata per un calcio di incursori illeggibili. “Fantasmi predatori” li chiamavo con il mio staff. Zielinski, Mertens, ma anche Politano (che avevo già avuto all’Inter), Elmas e Fabian Ruiz.
Tutti calciatori che sapevano approfittare della condizione di essere “precari” dentro la parte, sempre in movimento, mai proprietari di un solo ruolo o di una semplice zona del campo.
Per il resto, mi fidavo ciecamente del direttore sportivo Cristiano Giuntoli, molto preparato, grande conoscitore anche di calcio giocato. Lui e Maurizio Micheli, a capo dell’area scouting, buttarono giù un po’ di nomi, in base alle caratteristiche e alla disponibilità.
Puntammo a prendere Zakaria dal Borussia Moenchengladbach, ma non ci fu verso di ottenerlo. Costava troppo.
Con Anguissa fu come pescare il jolly nel mazzo. Scoprii un ragazzo dolcissimo, pacato, morbido, intelligente. Era un gigante buono, come Koulibaly. Frank diventò l’icona fashion del nostro spogliatoio fin da subito. Ogni volta arrivava al campo con un look più stravagante e ricercato ed era diventato un rito irrinunciabile e propiziatorio scattarci un selfie insieme.
Un “tuttocampista” che in campo sapeva fare qualsiasi cosa, con un impatto fisico che in quel Napoli un po’ mancava.
E i più “fisicati” di solito hanno anche più garra, più rabbia. Io non posso accettare che la mia squadra non scenda in campo con la giusta determinazione.
Non si tratta di sapere se Cappuccetto Rosso ha preso la strada giusta o sbagliata, ma di sapere se siamo una squadra abbastanza forte per avere la meglio sul lupo, essere cioè in grado di ribaltare la situazione avversa, la pretesa di chi ci vuole mangiare.
Feci l’appello delle forze in campo: la mia testa c’era, i giocatori c’erano, i tifosi bisognava cominciare a portarli dalla nostra parte. Si trattava solo di accendere quel sacro fuoco che a Napoli chiamano cazzimma.
Dicono che in me ci sia una percentuale di follia. Lo sostengono anche gli amici che mi conoscono bene, dunque ci devo credere. E poiché si dice da sempre la stessa cosa di Napoli e dei napoletani, l’idea diffusa era che, dopo tanto girovagare, ero finalmente atterrato al posto giusto.
Non mi restava che augurarmi che le due follie, la mia e quella della città, si combinassero nel modo migliore. Vincere, certo, ma anche come vincere.
A Napoli non basta la banale vittoria, il trofeo da mettere in bacheca, ci vuole di più. Devi scatenare l’incendio. E se non hai il “calciatore magico”, il Maradona, devi cercare di tirare fuori la magia dalla squadra nel suo insieme. Nel caos di Napoli c’è tanto di magico. (Il Mattino)